Année : 2014 Durée : 1 heure

Texte : Italo Calvino

Genre : Théâtre lyrique, opéra, opera-buffa

Effectif : pour flûte (+piccolo), clarinette, cor, percussion, harpe, alto, violoncelle,
et soprano coloratur, mezzo soprano, baryton-acteur : Qfwfq


Détails : Création mondiale le 12 Mars 2019 à Toulon (France) Théâtre Liberté, scène nationale en co-production avec le Festival Présences féminines et l'Opéra de Toulon.
Mélanie Boisvert soprano, Albane Carrère mezzo, Francesco Biamonte baryton
Boris Grelier flûte, Franck Russo clarinette, Bruno Badoux cor, Vassilia Briano harpe,
Alain Pélissier alto, Manuel Cartigny violoncelle, Cédric Clef percussions
chef de chant Armelle Mathis, direction Léo Warinsky, mise en scène Victoria Duhamel


Édition : Babelscores

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Le Cosmicomiche
Deux opéras bouffes sur les nouvelles d'Italo Calvino
Un segno nello spazio, Tutto in un punto
(texte en italien)


Notice :

Pourquoi le Cosmicomiche?
Depuis le succès de mon opéra Médée à Lyon, je rêve d'écrire un opera buffa en italien.
Je me suis beaucoup amusée en lisant Le Cosmicomiche d'Italo Calvino.
Les nouvelles Un segno nello spazzio et Tutto in un punto m'ont donné matière à composer une œuvre qui se situe entre l'opéra et le mélodrame.
Cette œuvre hybride, chantée et parlée, prévue pour être mise en scène, appartient au genre que l'on appelait dans les années 80 "théâtre musical", mais elle reprend tout bonnement les ingrédients du "buffa".
J'ai construit deux petites formes réunies par un interlude purement instrumental. Il en résulte un spectacle d'environ une heure, avec un ensemble de chambre et trois chanteurs. J’ai élaboré le livret moi-même, en italien, mais je n'ai rien changé au texte original : j'y ai seulement fait quelques coupures.
Le personnage principal, Qfwfq est à la fois un acteur - dans la première nouvelle il parle plus qu'il ne chante - et un baryton qui chante beaucoup plus dans la seconde nouvelle.
Les deux chanteuses (soprano coloratur et mezzo) commentent ses paroles ou l'interrompent avec impertinence, passant du rôle de chœur antique à celui des personnages évoqués par le récit de Qfwfq.

Un segno nello spazio
L'épopée de Qfwfq cherchant désespérément à marquer d'un signe son passage en un point de l'espace et son désespoir dérisoire devant l'impossibilité d'inscrire sa marque est une merveilleuse métaphore de la présomptueuse ambition que nous avons tous de laisser une trace. Italo Calvino introduit également dans cette nouvelle - avec un humour corrosif - certaines considérations sur l'influence de la mode en matière artistique et sur le doute que nous, artistes, ressentons si souvent en face de notre œuvre...

Tutto in un punto
Et même avant le Big bang, alors que tous - humains et matériaux de construction du monde à venir - étaient concentrés en un seul point, la merveilleuse Signora Ph(i) Nko réussissait à donner aux autres une conception de l'Espace, dans "un véritable élan d'amour général" en leur promettant de leur faire des tagliatelles !
Il y a dans cette nouvelle un savoureux épisode dénonçant le racisme (déjà!) à l'égard des immigrés...



Michèle Reverdy
Le COSMICOMICHE
Due opere tascabili su racconti di
Italo Calvino
Un segno nello spazio, Tutto in un punto
flauto (+ottavino),clarinetto, corno, percussione, arpa, viola,violoncello
soprano coloratura, mezzosoprano, cantante-attore (baritono): Qfwfq
durata: 1 ora
2013
Esecuzione in prima assoluta (in italiano) il 12 Marzo 2019 Toulon (Francia) Théâtre Liberté, scène nationale co-produzione con Festival Présences féminines e l'Opera de Toulon.
Mélanie Boisvert soprano, Albane Carrère mezzo, Francesco Biamonte baryton
Boris Grelier flûte, Franck Russo clarinette, Bruno Badoux cor, Vassilia Briano harpe,
Alain Pélissier alto, Manuel Cartigny violoncelle, Cédric Clef percussions
chef de chant Armelle Mathis, direction Léo Warinsky, mise en scène Victoria Duhamel

Editions Babelscores Contemporary Music Online
http://www.babelscores.com/michelereverdy

Perchè le Cosmicomiche?
Dopo il successo della Médée all'opera di Lione, ho sognato di comporre un'opera buffa in italiano.
Mi sono molto divertita leggendo Le Cosmicomiche di Italo Calvino. I racconti Un segno nello spazio e Tutto in un punto mi hanno offerto la materia da cui trarre un lavoro che si situa fra l’Opera e il Melodramma. Questo lavoro ibrido, cantato e parlato, creato con l’intento preciso di essere messo in scena, appartiene al genere che si chiamava, negli anni Ottanta del Novecento, "teatro musicale" e tuttavia riprende apertamente tutti gli ingredienti dell’Opera Buffa.
Ho costruito due piccole forme, riunite da un interludio puramente strumentale. Ne risulta uno spettacolo di circa un'ora, con ensemble cameristico: tre cantanti e sette strumentisti.
Ho preparato il libretto da sola: tagliando il testo originale, ma senza modificarne una parola.
Il personaggio principale, Qfwfq, è al contempo attore e baritono: nella prima parte parla soprattutto, e nella seconda canta molto di più. Le due cantante (una soprano di coloratura e una mezzo-soprano) commentano le sue parole, o lo interrompono con impertinenza, passando dal ruolo del coro antico alle parti dei personaggi evocati dalla storia che Qfwfq racconta.

Un segno nello spazio
L’epopea di Qfwfq che cerca disperatamente di lasciare un segno del suo passaggio in un punto dello spazio, e la sua derisoria disperazione di fronte all’impossibilità di farlo, è una meravigliosa metafora dell’ambizione che tutti noi abbiamo di lasciare una memoria di noi stessi. Italo Calvino introduce inoltre in questo racconto - e lo fa con un umorismo corrosivo - alcune considerazioni sull’influenza delle mode in tema artistico, e sui dubbi che noi artisti così spesso sentiamo quando prendiamo in considerazione la nostra creazione...

Tutto in un punto
E perfino prima del Big bang, quando tutti - umani e materiali da costruzione del mondo che sarebbe venuto - erano concentrati in un solo punto, la meravigliosa Signora Ph(i) Nko riusciva a dare agli altri un concetto dello Spazio, in un «vero slancio d’amore generale», promettendo di far loro delle tagliatelle!
In questo racconto troviamo un saporito episodio che denuncia (già allora!) il razzismo nei confronti degli immigrati...
Libretto

1- Un segno nello spazio

Situato nella zona esterna della Via Lattea, il Sole impiega circa 200 milioni d’anni a compiere una rivoluzione completa della Galassia.

Esatto, quel tempo là ci si impiega, mica meno, io una volta passando feci un segno in un punto dello spazio, apposta per poterlo ritrovare duecento milioni d’anni dopo, quando saremmo ripassati di lì al prossimo giro. Un segno come ? È difficile da dire perché se vi si dice segno voi pensate subito a un qualcosa che si distingua da un qualcosa, e lì non c’era niente che si distinguesse da niente ; voi pensate subito a un segno marcato con qualche arnese oppure con le mani, che poi l’arnese o le mani si tolgono e il segno invece resta, ma a quel tempo arnesi non ce n’erano ancora, e nemmeno mani, o denti, o nasi, tutte cose che si ebbero poi in seguito, ma molto tempo dopo.
Avevo l’intenzione di fare un segno, questo sì, ossia avevo l’intenzione di considerare segno una qualsiasi cosa che mi venisse fatto di fare, quindi avendo io, in quel punto dello spazio e non in un altro, fatto qualcosa intendendo di fare un segno, risultò che ci avevo fatto un segno davvero.
Che fosse riconoscibile senza rischio di sbagliare, questo sì : per via che tutti gli altri punti dello spazio erano uguali e indistinguibili, e invece questo aveva il segno.
Così i pianeti proseguendo nel loro giro, e il Sistema solare nel suo, ben presto mi lasciai il segno alle spalle, separato da campi interminabili di spazio.
Lentamente la Via Lattea si voltava su di sé.
In tutta quella giostra, solo il segno stava fermo, al riparo da ogni orbita (per farlo, m’ero sporto un po’ dai margini della Galassia, in modo che restasse al largo e il rotolare di tutti quei mondi non gli venisse addosso), in un punto qualunque che non era più qualunque dal momento che era l’unico punto che si fosse sicuri che era lì, e in rapporto al quale potevano essere definiti gli altri punti.
Ci pensavo giorno e notte ; era quella la prima occasione che avevo di pensare qualcosa ; o meglio, pensare qualcosa non era mai stato possibile, primo perché mancavano le cose da pensare, e secondo perché mancavano i segni per pensarle.
Trasportato dai fianchi della Galassia il nostro mondo navigava al di là di spazi lontanissimi, e il segno era là dove l’avevo lasciato a segnare quel punto, e nello stesso tempo segnava me, me lo portavo dietro, mi abitava, mi possedeva interamente, s’intrometteva tra me e ogni cosa con cui potevo tentare un rapporto.
Nell’attesa di tornare a incontrarlo, potevo cercare di derivarne altri segni e combinazioni di segni, serie di segni uguali e contrapposizioni di segni diversi.
In questo arrovellarmi (mentre la Galassia continuava a rigirarsi insonne nel suo letto di morbido vuoto, come mossa dal prurito di tutti i mondi e gli atomi che s’accendevano e radiavano) capii che ormai avevo perso anche quella confusa nozione del mio segno, e riuscivo a concepire solo frammenti di segni intercambiabili tra loro. La dimenticanza era seccante, ma non irrimediabile. Comunque andasse, sapevo che il segno era là ad aspettarmi, fermo e zitto.
A occhio e croce, dovevamo essere arrivati già a metà percorso della nostra rivoluzione galattica : ci voleva pazienza, la seconda metà dà sempre l’impressione di passare più alla svelta.
Fremevo d’impazienza perché mi potevo imbattere nel segno a ogni istante. Era qui, no, un po’ più in là, ora conto fino a cento...Che non ci fosse più ? Che l’avessi già passato ? Niente. Il mio segno era rimasto chissà dove, indietro, completamente fuori mano rispetto all’ orbita di rivoluzione del nostro sistema. Non avevo fatto i conti con le oscillazioni cui, specie a quei tempi, erano soggette le forze di gravità dei corpi celesti e che li portavano a disegnare orbite irregolari e frastagliate come fiori di dahlia. Per un centinaio di millenni mi arrovellai a rifare i miei calcoli : risultò che il nostro percorso toccava quel punto non ogni anno galattico ma soltanto ogni tre, cioè ogni seicento milioni di anni solari.
In groppa alla Galassia percorrevo gli anni-luce caracollando sulle orbite planetarie e stellari. Ero in un stato di esaltazione via via crescente.
Feci il secondo giro, il terzo. C’ero. Lanciai un grido. In un punto che doveva proprio essere quel punto, al posto del mio segno c’era un fregaccio informe, un’abrasione dello spazio slabbrata e pesta.
Avevo perduto tutto : il segno, il punto, quello che faceva si che io fossi io.
Lo spazio, senza segno, era tornato una voragine di vuoto senza principio né fine, nauseante.
Lo sconforto mi prese e mi lasciai trascinare molti anni-luce come privo di sensi. Quando finalmente alzai gli occhi (nel frattempo, la vista era cominciata nel nostro mondo), lo vidi, il segno, ma non quello, un segno simile, un segno senza dubbio copiato dal mio, ma che si capiva subito che non poteva essere il mio, tozzo com’era e sbadato e goffamente pretenzioso, una laida contraffazione.
Chi mi aveva giocato questo tiro ?
Su di un altro sistema planetario che compiva la sua rivoluzione galattica innanzi a noi, stava un certo Kgwgk, tipo dispettoso e divorato dall’invidia, che in un impulso vandalico aveva cancellato il mio segno e poi s’era messo con sguaiato artificio a tentare di marcarne un altro.
Volli subito tracciare un nuovo segno nello spazio che fosse un vero segno e facesse morire dall’invidia Kgwgk. Erano pressapoco settecento milioni d’anni che non mi provavo più a fare un segno.
Adesso le cose erano diverse, perché il mondo stava cominciando a dare un’immagine di sé, e in ogni cosa alla funzione cominciava a corrispondere una forma, e quindi in questo mio nuovo segno era sensibile l’influenza di come allora si vedevano le cose, chiamiamolo lo stile!
Già nella durata di quell’ anno galattico, si conminciò a capire che fino a quel momento le forme del mondo erano state provvisorie e che sarebbero cambiate una per una. E a questa consapevolezza s’accompagnò un fastidio per le vecchie immagini.
E io cominciai a essere tormentato da un pensiero : avevo lasciato quel segno nello spazio, quel segno che m’era parso tanto bello e originale e adatto alla sua funzione, e che adesso appariva alla mia memoria in tutta la sua pretenziosità fuor di luogo, come segno innanzitutto d’un modo antiquato di concepire i segni, e della mia sciocca complicità con un assetto delle cose da cui avrei dovuto sapermi distaccare in tempo. Insomma, mi vergognavo di quel segno. Per nascondere la mia vergogna sprofondavo nei crateri dei vulcani, affondavo i denti per il rimorso nelle calotte delle glaciazioni che coprivano i continenti.
Ormai sapevo che i segni servono anche a giudicare chi li traccia, e che in un anno galattico i gusti e le idee hanno tempo di cambiare, e il modo di considerare quelli di prima dipende da quel che viene dopo. Invece, il primo segno, vandalicamente cancellato da Kgwgk, restava inattacabile dal mutare dei tempi, come quello che era nato prima d’ogni inizio delle forme, cioé era un segno e basta!
Così, non potendo fare dei veri segni ma volendo in qualche modo dar fastidio a Kgwgk, mi misi a fare dei segni finti, delle tacche nello spazio, dei buchi, delle macchie.
E Kgwgk si accaniva a farli sparire sotto le sue cancellature con un impegno che doveva ben costargli fatica. (Io adesso seminavo di questi finti segni lo spazio, per vedere fino a che punto arrivava la sua dabbenaggine).
Ora mi resi conto d’una cosa : col passare degli anni galattici esse cancellature tendevano a sbiadire nello spazio. La scoperta me riaccese di speranza. Se le cancellature di Kgwgk si cancellavano, la prima che egli aveva fatta, là in quel punto, doveva essere ormai sparita, e il mio segno doveva esser tornato alla sua primitiva evidenza !
Così l’attesa tornò a dare ansia ai miei giorni.
Ma nel passare degli anni galattici lo spazio non era più quella distesa uniformemente brulla e scialba. L’idea di marcare con dei segni i punti dove si passava, così com’era venuta a me e a Kgwgk, l’avevano avuta in tanti, sparsi su miliardi di pianeti d’altri sistemi solari, e continuamente m’imbattevo in uno di questi cosi, o un paio, o addirittura una dozzina, semplici ghirigori bidimensionali, oppure solidi a tre dimensioni, o anche roba messa su con più accuratezza, con la quarta dimensione e tutto. Fatto sta che arrivo al punto del mio segno, e ce ne trovo cinque, tutti lì. E il mio non son buono a riconoscerlo.
E intanto la Galassia scorreva nello spazio e si lasciava dietro segni vecchi e segni nuovi e io non avevo ritrovato il mio.
Non esagero dicendo che quelli che seguirono furono gli anni galattici peggiori che avessi mai vissuto.
Nello spazio s’infittivano i segni, geroglifici e ideogrammi, ognuno dei quali poteva essere o non essere un segno: una concrezione calcarea sul basalto, una cresta sollevata dal vento sulla sabbia rappresa del deserto, la disposizione degli occhi nelle piume del pavone, la quattrocentoventisettesima scanalatura - un po’ di sbieco - della cornice del frontone d’un mausoleo, la gamba male inchiostrata della lettera R in una copia d’un giornale della sera, una scrostatura di un muro incatramato in un’intercapedine dei docks di Melbourne, la curva d’una statistica, una frenata sull’ asfalto, un cromosoma...
Nell’universo ormai non c’erano più un contenente e un contenuto, ma solo uno spessore generale di segni sovrapposti e agglutinati che occupava tutto il volume dello spazio, era una picchiettatura continua, l’universo era scarabocchiato da tutte le parti, lungo tutte le dimensioni.
La Galassia continuava a dar volta ma io non riuscivo più a contare i giri, qualsiasi punto poteva essere quello di partenza, qualsiasi segno accavallato agli altri poteva essere il mio, ma lo scoprirlo non sarebbe servito a niente, tanto era chiaro che indipendentemente dai segni lo spazio non esisteva e forse non era mai esistito.

2- Tutto in un punto

Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità d'allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell'universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio. La "grande esplosione" (big bang) da cui ha avuto origine l'universo sarebbe avvenuta circa 15 o 20 miliardi d'anni fa.

Si capisce che si stava tutti lì, e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva.E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe?
Ho detto "pigiati come acciughe" tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c'era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d'ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio, se non sotto l'aspetto del carattere, perché quando non c'è spazio, aver sempre tra i piedi un antipatico come il signor Pbert Pberd è la cosa più seccante.
Quanti eravamo? Eh, non ho mai potuto rendermene conto nemmeno approssimativamente. Per contarsi, ci si deve staccare almeno un pochino uno dall'altro, invece occupavamo tutti quello stesso punto. Al contrario di quel che può sembrare, non era una situazione che favorisse la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera.
Ognuno finiva per aver rapporti solo con un ristretto numero di conoscenti. Quelli che ricordo io sono soprattutto la signora Ph(i)NKo, il suo amico De XuaeauX, una famiglia di immigrati, certi Z'zu, e il signor Pbert Pberd che ho già nominato.
Già con questi si sarebbe stati in soprannumero; aggiungi poi la roba che dovevamo tenere lì ammuchiata: tutto il materiale che sarebbe poi servito a formare l'universo, smontato e concentrato.
In più si urtava sempre nelle masserizie della famiglia Z'zu, brande, materassi, ceste; questi Z'zu, se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria.
Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z'zu, a cominciare da quella definizione di "immigrati", basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. Che questo fosse un pregiudizio senza fondamento, mi par chiaro, dato che non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.
Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. Colpa dell' ambiente in cui ci eravamo formati. Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi: continua a saltar fuori ancor oggi, se per caso due di noi s'incontrano - alla fermata d'un autobus, in un cinema, in un congresso internazionale di dentisti -, e si mettono a ricordare di allora.
Il mese scorso, entro al caffè qui all'angolo e chi vedo? Il signor Pbert Pberd.
- Che fa di bello? Come mai da queste parti? - Apprendo che ha una rappresentanza di materie plastiche, a Pavia. È rimasto tal quale, col suo dente d'argento, e le bretelle a fiori. Quando si tornerà là, - mi dice, sottovoce, - la cosa cui bisogna stare attenti è che stavolta certa gente rimanga fuori... Ci siamo capiti: quegli Z'zu...
Per non lasciarmi portare su questa china, m'affrettai a dire: - E la signora Ph(i)Nko, crede che la ritroveremo?
- Ah, sì ...Lei sì...- feci lui, imporporandosi.
Per tutti noi la speranza di ritornare nel punto è soprattutto quella di trovarci ancora insieme alla signora Ph(i)Nko.
Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto col suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c'è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta di andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. Fosse stata un'altra persona, chissà quante cose le si sarebbero dette dietro. Degli Z'zu, tanto per cambiare, le cose orribili che ci toccava sentire: padre figlie fratelli sorelle madre zie, non ci si fermava davanti a nessuna losca insinuazione. Con lei invece era diverso: la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l'impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più?
E tutto questo, così come era vero per me, valeva pure per ciascuno degli altri. E per lei: conteneva ed era contenuta con pari gioia, e ci accoglieva e amava e abitava tutti ugualmente.
Si stava così bene tutti insieme, così bene, che qualcosa di straordinario doveva pur accadere. Bastò che a un certo momento lei dicesse: - Ragazzi, avessi un po' di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle! - E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova che ingombrava il largo tagliere mentre le sue braccia impastavano impastavano, bianche e unte d'olio fin sopra al gomito; pensammo allo spazio che avrebbero occupato la farina, e il grano per fare la farina, e i campi per coltivare il grano, e le montagne da cui scendeva l'acqua per irrigare i campi, e i pascoli per le mandrie di vitelli che avrebbero dato la carne per il sugo; allo spazio che ci sarebbe voluto perché il Sole arrivasse con i suoi raggi a maturare il grano; allo spazio perché dalle nubi di gas stellari il Sole si condensasse e bruciasse; alle quantità di stelle e galassie e ammassi galattici in fuga nello spazio che ci sarebbero volute per tener sospesa ogni galassia ogni nebula ogni sole ogni pianeta, e nello stesso tempo del pensarlo questo spazio inarrestabilmente si formava, nello stesso tempo in cui la signora Ph(i)Nko pronunciava quelle parole: "Ragazzi, che tagliatelle vi farei mangiare!"
Un vero slancio d'amore generale!